Cardinale Ruini, lei esordisce raccontando che gli editori le chiedevano un libro di memorie sugli anni in cui ha guidato la Chiesa italiana. Perché invece un libro su Dio?
«Perché mi sembra enormemente più utile, e anche più interessante. L’esistenza di Dio e il nostro rapporto con Lui sono stati l’ancoraggio della mia vita e il centro dei miei interessi intellettuali. Mi sento in dovere di offrire questo libro alla gente».
Lei sostiene di aver avuto fin da ragazzo la certezza dell’esistenza di Dio. Perché?
«Penso sia una certezza abbastanza naturale all’uomo, e in particolare al bambino. Ma è anche un dono che Dio ci fa in modo libero. Perché a qualcuno lo faccia in modo particolarmente intenso, questo lo sa solo Lui».
I suoi genitori non la volevano prete.
«È vero, in famiglia ci fu un’opposizione molto forte. Che mi rattristò, ma non mi fermò. Mio padre, che era medico, mi impose però una condizione: andare a Roma. Temeva che nel seminario di Reggio Emilia non mi avrebbero dato abbastanza da mangiare – erano ancora anni di povertà -. E che non mi sarei laureato».
Degli studi alla Gregoriana lei ricorda l’impostazione tomista e neoscolastica, oggi considerata superata. Questo cosa significa? Che i teologi hanno rinunciato a dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio?
«Significa che la teologia ha iniziato un cammino nuovo: un dialogo, sia pure critico, con la cultura attuale. Anche se la grande scolastica da Tommaso a Bonaventura rimane molto importante. Questo cambiamento non implica la rinuncia all’argomentazione razionale a favore dell’esistenza di Dio. Sebbene la parola “dimostrazione” oggi piaccia meno, perché sembra indicare la necessità di credere in Dio. È invece una scelta razionalmente motivata ma libera».
Conciliare fede e ragione è una linea-guida del papato di Ratzinger, e affiora anche nel suo libro. Ma l’evoluzione delle scienze e delle biotecnologie non rende ancora più difficile il compito?
«Le scienze da una parte diventano sempre più consapevoli dei propri intrinseci limiti epistemologici. Dall’altra, pongono domande sempre più grandi e sempre più radicali, non solo riguardo all’uomo ma all’universo. Anziché chiudersi, le strade della fede, e direi anche della filosofia, si aprono sempre di più. Lo scientismo, che considera oggettivamente valido solo il pensiero scientifico, oggi è ormai obsoleto. E mette in imbarazzo i migliori uomini di scienza, che sono lontani dal vantare l’autosufficienza della ricerca scientifica».
Lei appare convinto che, pure nell’età della secolarizzazione, la fede e anche la proposta di vita della Chiesa non siano condannate a essere minoritarie. O no?
«Quantificare in queste materie è difficile. Vivere da cristiani fino in fondo o comunque seriamente è di pochi; e secondo me lo è sempre stato. Credere in Dio può essere di molti. In America siamo oltre l’80%, in Italia le percentuali sono poco più basse; anche se decrescono nella cultura alta, e nei media».
Da capo dei vescovi lei valutò che il cristianesimo non dovesse rinchiudersi in un fortilizio assediato, ma giocare a tutto campo. È così?
«Sì, però l’idea non è mia. È di Giovanni Paolo II. Già nell’84, quando lo conobbi, diceva che l’onda di piena della secolarizzazione era alle nostre spalle. Allora pareva un giudizio avventato; oggi è condiviso dai sociologi della religione. Certo la corrente secolarizzatrice continua a essere forte. Su questo non dobbiamo illuderci».
Dio come lo pensa lei è comune alle varie religioni? Come possiamo essere certi di essere noi cristiani nel giusto? Come possiamo essere sicuri che Gesù sia davvero «la più alta e definitiva manifestazione di Dio nella storia»?
«Dio è certamente uno solo. Le varie religioni però hanno di Lui idee molto diverse. Gesù stesso ha rivendicato di avere un rapporto unico con Dio, che si esprime nella parola “figlio”. E Dio ha confermato questa pretesa inaudita di Gesù, resuscitandolo dai morti. La pretesa non viene da noi, viene dal Cristo».
Secondo lei c’è differenza tra la fede di Wojtyla e quella di Ratzinger? Noi tendiamo a pensare che la prima fosse più sentimentale e la seconda più razionale.
«Le differenze ci sono, non ovviamente nei contenuti ma nel modo, nello stile, anche secondo l’indole di ciascuno e il dono che Dio fa a ciascuno. Ma i due Papi sono più simili di quel che sembrerebbe. Entrambi uomini di intelligenza straordinaria: Benedetto XVI come tutti sanno, e Giovanni Paolo II, che era di un’intelligenza fulminante e anche teoretica. Entrambi uomini di fede rocciosa e direi semplice: si può essere un grande teologo, come papa Ratzinger, e avere la fede delle persone semplici, o dei bambini».
È passato mezzo secolo dall’apertura del Vaticano II. Aperture lungimiranti, interpretate in modo talora sbagliato: sembra essere questa la sintesi che prevale oggi nelle gerarchie. Lei vi si riconosce? O no?
«Il Vaticano II è stato, come ha detto Giovanni Paolo II, la massima grazia ricevuta dalla Chiesa nel XX secolo. Proprio per questo è stato una sfida enorme, a volte mal compresa. Da ciò sono nati danni molto grandi. Attorno a questa valutazione di fondo cresce il consenso».
Quali danni?
«La crisi del clero, della vita consacrata. Molti hanno smesso la pratica religiosa. La crisi della forma cattolica della Chiesa. Il Concilio si dedicò molto al rapporto tra i vescovi e il Papa, dando per acquisita la “tranquilla adesione” all’intero corpo dottrinale della Chiesa, come la definì Giovanni XXIII. Invece il magistero della Chiesa è stato messo in discussione e spesso disatteso anche all’interno della Chiesa stessa».
Come ricorda il cardinale Martini e come interpreta la sua figura? È stato il «capo dell’opposizione» all’interno della Chiesa wojtyliana e, per l’Italia, ruiniana?
«Non si tratta di Ruini: l’interlocutore di Martini era il Papa. È stato spesso presentato come l’antagonista. Ma non ha mai voluto essere così. Sarebbe anche un immiserirlo. È stata una grande personalità, un leader mondiale, con molti registri: spirituale, biblico, dialogico, pratico; Martini era anche uomo che sapeva governare in concreto. Innamorato di Cristo, del Vangelo e della Chiesa, oltre che dell’umanità».
Cosa risponderebbe a Martini che nell’ultima intervista dice: «La Chiesa è indietro di 200 anni»?
«Non ho mai polemizzato con lui da vivo, tanto meno lo farei adesso. A mio parere, occorre distinguere due forme di distanza della Chiesa dal nostro tempo. Una è un vero ritardo, dovuto a limiti e peccati degli uomini di Chiesa, in particolare all’incapacità di vedere le opportunità che si aprono oggi per il Vangelo. L’altra distanza è molto diversa. È la distanza di Gesù Cristo e del suo Vangelo, e per conseguenza della Chiesa, rispetto a qualsiasi tempo, compreso il nostro ma anche quello in cui visse Gesù. Questa distanza ci deve essere, e ci chiama alla conversione non solo delle persone ma della cultura e della storia. In questo senso anche oggi la Chiesa non è più indietro, ma è più avanti, perché in quella conversione c’è la chiave di un futuro buono».
Il silenzio di Dio di fronte al male è usato come pretesto per negarlo. Dio può permettere anche attacchi alla Chiesa? Come valuta la questione dei documenti del Papa trafugati?
«Non solo Dio può permettere questi attacchi, ma li ha sempre permessi: fanno parte della logica profonda del cristianesimo. Gesù lo disse chiaramente: “Come hanno perseguitato me, così perseguiteranno voi”. Quanto ai documenti, è una vicenda triste, di cui si è già parlato fin troppo».
L’Italia è alla vigilia di elezioni delicatissime. La Chiesa oggi ha un interlocutore privilegiato? I valori cattolici sono rappresentati nell’attuale governo? Serve all’Italia un nuovo centro che ai valori cattolici faccia riferimento? Lei vede nuovi possibili leader?
«Interlocutori della Chiesa sono tutti i credenti, e tutti gli italiani interessati ad ascoltarla. Privilegiato può dirsi chi ascolta di più. Fin dal convegno di Palermo del 1995, la Chiesa italiana preferisce non entrare nelle questioni degli schieramenti politici. E invita non solo i cattolici, ma tutti gli italiani disponibili, a impegnarsi politicamente per valori e contenuti che sono sostenuti dalla Chiesa, ma non sono contenuti confessionali, bensì di interesse generale. Quanto alle leadership, si prendono e si esercitano, non le può conferire nessuno; tantomeno la Chiesa».
Aldo Cazzullo