Devozione e rappresentazione nei riti della Settimana Santa: dalla "scisa ‘a cruci" alla processione dei Misteri
di Alessandro Scaccianoce
Quante volte, leggendo sulle origini dei riti della Settimana Santa e di altre pratiche religiose tradizionali, abbiamo sentito ripetere, quasi meccanicamente, che nascevano dalla gente che non capiva la liturgia in latino? In tal modo si è via via alimentato, soprattutto dopo la riforma liturgica degli anni ’70, una contrapposizione tra la liturgia ufficiale e le pratiche devozionali, che ha portato a sminuire sempre di più il valore della cosiddetta “religiosità popolare”. Si tratta di una motivazione troppo banale e riduttiva del fenomeno che nei secoli ha visto lo sviluppo di pratiche devozionali extra o para-liturgiche. Non si tratta, infatti, di riti “esplicativi” di liturgie altrimenti incomprensibili – che la gente invece comprendeva molto bene -, ma di uno sviluppo coerente e logico di quelle stesse celebrazioni. Uno studio ravvicinato delle fonti, infatti, ci consente di poter affermare un dato molto semplice: processioni, devozioni, riti esteriori sono nati su impulso del clero che nel tempo ha voluto, incoraggiato e accompagnato questo tipo di manifestazioni pubbliche di fede. Ciò, tra l’altro, spiega proprio la continuità e la coerenza di questi riti con la liturgia. Se – come sembra – gli antenati di questi riti sono le “Laudi” medievali ciò risulta ancora più evidente. Le Laudi, infatti, erano uno strumento che nutriva e alimentava la preghiera collettiva, diffuso da un vero e proprio movimento di frati-cantori itineranti, come auspicato da S. Francesco, che chiese ad alcuni suoi frati di andare predicando e cantando le lodi di Dio “tamquam joculatores Domini” (come giullari del Signore). Le Confraternite poi furono lo strumento che favorì la diffusione di questi riti.
Le Confraternite nascono come una peculiare modalità comunitaria di vivere la fede. Per tale via il clero cercava di tenere viva la fede dei fedeli, favorendone l’aggregazione e promuovendo l’esercizio di pratiche di pietà tra i confrati, sostenendosi vicendevolmente. Il Concilio di Trento non fece altro che sancire l’ufficialità di questo strumento di evangelizzazione, chiedendo che in tutto l’Orbe cattolico si favorisse la creazione di gruppi di fedeli in forma confraternale. Proprio In tale contesto si ebbe la fioritura delle confraternite nel corso del 600. San Carlo Borromeo, ad esempio, che fu un grande divulgatore delle statuizioni del Concilio Tridentino, profuse grande impegno nella creazione delle confraternite, curandone personalmente – da fine canonista qual era – gli statuti e i regolamenti. Da Trento e da Milano, poi, il fenomeno si diffuse presto in tutta Italia.
Credo sia importante, allora, per un approccio che ci consenta di capire meglio e più da vicino i fenomeni che abbiamo davanti, rivalutare l’operato del clero e degli ordini mendicanti (Domenicani e Francescani) nel processo di formazione delle manifestazioni religiose popolari che sono sopravvissute fino ai nostri giorni.
Una fonte domenicana del sec. XII dice: “Ad excitandam devotionem fidelium sancta mater ecclesia passionem Christi… annualiter representat” (Per favorire la devozione dei fedeli, la Chiesa ripresenta annualmente la passione di Cristo). Rappresentare la passione, dunque, nasce in seno alla Chiesa, senza distinzione, come vorrebbe fare una certa storiografia, tra Chiesa ufficiale-clero e Chiesa-laici: vi contribuirono in egual misura clero, frati mendicanti e laici disciplinati. Nascono in tal modo le Sacre Rappresentazioni. Ma a questo punto è necessaria un’ulteriore precisazione. L’atto della sacra rappresentazione appartiene, sin dalle origini, più alla sfera della preghiera che a quella dello spettacolo in senso proprio. Il dramma sacro, seppur distinto dalla matrice liturgica non era “rappresentazione”, ma “concelebrazione”. I protagonisti di questi atti non sono meri “attori”, ma fedeli devoti che si immedesimano, corpo e anima, nel Mistero evidenziato. Pertanto, con riferimento a questi riti, potremmo parlare più correttamente di una devota rievocazione (represantare = rievocare) che ha il solo scopo di commuovere (cioè muovere insieme) la mente dei fedeli alla devozione.
Perciò la devozione si fa rappresentazione e la rappresentazione esprime la devozione: solo in questa dinamica è possibile comprendere a fondo la drammaturgia sacra che si sviluppa attorno ai Misteri della Pasqua del Signore.
Ciò detto, possiamo accostarci a guardare più da vicino uno dei riti più antichi, ancora oggi diffuso: la Deposizione del Cristo, che in Sicilia prende il nome di “Scisa a cruci”, e che affonda le sue origini nella “Scavigliazione”. Si tratta di una cerimonia di Deposizione dalla Croce che trova la sua origine in un’opera del 1200: la “Lauda della Scavigliazione”. Questo rito si ripete annualmente ad Assisi, patria natìa della Lauda stessa. Al tramonto del Giovedì Santo, al termine della messa “in Coena Domini” i canonici della Cattedrale raggiungono l’altare seicentesco del Crocefisso, dove è venerato un Cristo ligneo del XVI secolo. Due sacerdoti, in cotta e stola, salgono su una ripida scaletta fino alla sommità della croce e provvedono a staccare il chiodo dalla mano destra, lasciando cadere il braccio di Cristo lungo il fianco; quindi “scavigliano” l’altro braccio ed in ultimo i piedi. Il Cristo, liberato dai chiodi, viene così deposto e adagiato su un cataletto al centro della chiesa, dove rimane esposto alla venerazione dei fedeli, unitamente all’altare del Sepolcro (ciò conferma la tesi esposta nel mio articolo precedente sull’origine degli altari dei Sepolcri). La breve cerimonia è accompagnata da preghiere e canti.
Questo doveva essere anche il rituale più antico seguito a Biancavilla, noto come “a scisa ‘a Cruci”. Così, infatti, ci sembra di averla rivista, quando, l’anno scorso, questa pratica è stata ripresa dall’oblìo in cui era caduta, per iniziativa del prevosto Agrippino Salerno, che ha così accolto le richieste formulate da più parti a ripristinare l’antico rito. È bastato riprendere quel Cristo, le cui braccia snodabili avevano sempre testimoniato silenziosamente la sua antica destinazione a questo rituale suggestivo.
Ad Assisi il Cristo deposto in tale forma solenne, la sera del Venerdì Santo viene recato in processione dalla Cattedrale di San Rufino fino alla Basilica di San Francesco.
E questa, pensiamo, doveva essere anche la forma della più antica processione del Venerdì Santo che si svolgeva a Biancavilla nel corso del 600, quando esisteva un’unica confraternita (quella del Santissimo Sacramento). Del resto, anche nella pietà popolare è difficile immaginare invenzioni o creazioni “ex novo”. Il motore è sempre ed essenzialmente la tradizione (nel senso di trasmissione di un patrimonio). Con la fondazione delle successive confraternite, per il meccanismo della “imitatio-emulatio”, a partire dal 700 si aggiunsero gli altri “Misteri”, del Cristo alla colonna e dell’Ecce Homo, che vennero ad arricchire questa processione. Altri gruppi statuari si sono aggiunti nei secoli successivi, in concomitanza con la fondazione di nuove confraternite (l’ultima nel 2010), facendo della processione serale del Venerdì Santo a Biancavilla uno dei pochi esemplari in Italia.
Gli altari della reposizione erano (e sono anche) sepolcri…
Una riflessione sull’origine degli altari dei sepolcri, allestiti per la custodia delle specie eucaristiche nei giorni del Triduo pasquale. Le foto illustrano alcuni allestimenti artistici realizzati negli anni scorsi presso la Basilica Santuario di Maria SS. dell’Elemosina di Biancavilla.
di Alessandro Scaccianoce
Al centro dell’anno liturgico sta il Triduo della passione, morte, sepoltura e risurrezione del Signore: è la Pasqua annuale. Di per sé i giorni del triduo sono Venerdì Santo, Sabato Santo e la Domenica di Pasqua. Il computo, tuttavia, avviene secondo l’uso antico, di origie ebraica, quando il giorno iniziava al tramonto, al brillare delle prime stelle della sera. Pertanto già la messa “in Coena Domini” (nella Cena del Signore), che si celebra la sera del Giovedì Santo, rientra a pieno titolo nel Triduo Sacro. La Messa si conclude con la processione del SS.mo Sacramento all’altare della Reposizione, meglio noto come “Sepolcro”. Si parla, a tal riguardo, di “reposizione” e non di “ostensione” perché più marcata sia la fede nella presenza di Cristo, che pur non vediamo. A partire da questo momento si innestano una serie di manifestazioni religiose popolari collaterali, paraliturgiche.
Fra queste vi è caratteristica la cosiddetta visita ai “sepolcri”. Chi per fede, chi per curiosità, ci si muove nella notte del Giovedì Santo per le vie della città in visita agli altari delle chiese addobbati solennemente. C’è chi, a questo punto, si affretta subito a precisare che “è sbagliato” parlare di “sepolcri”, perché “Gesù non è ancora morto”, e robe simili: si deve dire “altare della reposizione”!…
Tuttavia, il termine latino “Repositorium” (da cui evidentemente derivano le parole “repositorio” e “reposizione”) significa proprio “sepolcro”!
Allora la questione è un’altra: perché a questi altari è legato (piaccia o meno) il riferimento alla custodia di un corpo senza vita? Siamo tutti ben d’accordo, infatti, che Cristo, presente nelle specie eucaristiche, è il Vivente per eccellenza.
L’origine del rito dei “Sepolcri” è molto risalente. Ci aiuta in questo J.A. Jungmann, che così scrive ne La liturgia della Chiesa: “All’inizio del secondo millennio… dal Venerdì Santo al mattino di Pasqua si vegliava presso l’Eucaristia deposta insieme alla croce in un “sepolcro”. In tal modo si intendeva onorare le 40 ore di permanenza del corpo di Gesù nel sepolcro”. Sta proprio qui l’origine della pratica delle Quarantore, che nel secolo XVI si è venuta a staccare dalla Settimana Santa per formare una funzione a sé stante. Prosegue lo storico: “Già nel II secolo apprendiamo che venivano onorate le 40 ore, durante le quali il Signore giacque nel sepolcro, con un digiuno completo di altrettante ore (Eusebius, Hist. Eccl. V, 24). In seguito si sviluppò, soprattutto nei paesi nordici, l’uso di erigere nelle chiese il ‘Santo sepolcro’, e il Venerdì Santo (o anche già il Giovedì Santo, dopo la messa) aveva luogo la deposizione nel sepolcro“. Si onorava in tal modo lo spazio di tempo del riposo del Signore nel sepolcro. Secondo la tradizione, infatti, sarebbero 40 le ore in cui il corpo di Gesù sarebbe rimasto nel potere della morte, calcolate tra le 3 del pomeriggio del Venerdì Santo e le 7 della domenica di Pasqua.
Ancora in epoca carolingia è attestata la custodia delle Ostie consacrate in un apposito altare, al termine della Messa “in Coena Domini”. Ciò – è utile ricordarlo – accadeva ad eccezione di tutti gli altri giorni dell’anno, in cui l’Eucaristia veniva conservata nelle sagrestie. Poiché i giorni del Venerdì e del Sabato Santo erano, infatti, a-lituirgici, ovvero giorni in cui non si celebrava il sacrificio della Messa, era necessario conservare delle “riserve” per la Comunione dei fedeli. Questa custodia eccezionale era legata, dunque, proprio ai giorni della passione e morte di Gesù. Era evidente, pertanto, l’identificazione di questi luoghi con quello spazio che conservò il corpo di Cristo in attesa della risurrezione.
Al riguardo, gli storici spiegano che questa storicizzazione dei fatti evangelici, così connaturale alla pietà popolare, rappresenta una delle leggi che hanno contribuito alla stessa formazione del Triduo pasquale.
A ciò bisogna aggiungere, inoltre, che da sempre vi è stata una stretta identificazione tra l’altare e il sepolcro di Cristo. Si fa riferimento, a tal proposito, ad una celebre visione di San Gregorio Magno, in cui il Cristo gli appare proprio sull’altare nell’atto di uscire dal sepolcro con i segni della passione. Così nel tardo Medioevo cominciarono a poco a poco a edificarsi tabernacoli fissi sull’altare in grado di rievocare il sepolcro di Cristo, in continuità con la florida simbologia che spesso identificava la torre eucaristica o la nicchia nella quale si conservava l’eucaristia con il sepolcro. A partire dal Concilio di Trento il tabernacolo venne permanentemente intronizzato sull’altare, sanandosi in tal modo la secolare bipolarità tra altare e tabernacolo dei secoli precedenti. Nel linguaggio della liturgia si conserva, infatti, l’idea che il Tabernacolo sia il sepolcro che contiene il corpo di Cristo Risuscitato.
Nello scorrere dei secoli, dunque, si conservò l’usanza di allestire in modo particolarmente ricercato l’altare che custodisce le specie eucaristiche nei giorni del Triduo. Dal XVI secolo in poi s’impose, soprattutto nell’Europa settentrionale, l’usanza di deporre in un sepolcro l’immagine del Redentore morto, circondata da lumi e fiori esponendo, sopra di esso, il SS. Sacramento nell’ostensorio coperto da un velo. In Italia la riserva veniva custodita in un “repositorium” a forma di urna, chiusa a chiave, che in molti casi ricorda una vera e propria bara (ancora oggi ampiamente utilizzata).
Il luogo della custodia, infatti, in tali giorni Santi, mantenne un carattere straordinario: non poteva essere il tabernacolo che custodiva le Sacre Specie nel resto dell’anno, ma un luogo magnificamente ornato, che, in conformità alla lunga tradizione richiamata, richiamava il sepolcro. Lo stesso termine “repositorium”, come detto, è legato al concetto stesso di sepolcro. Nella chiesa velata e oscurata, questo spazio restava l’unico angolo in cui si concentrava l’attenzione dei fedeli attorno al Signore, in attesa della Sua resurrezione.
Oggi, com’è noto, l’altare della reposizione viene utilizzato dalla sera del Giovedì Santo, fino alla Liturgia della Passione del Venerdì Santo, al termine della quale, le Ostie eventualmente rimaste vengono riposte in un luogo nascosto, al di fuori della chiesa. Ciò tende a sottolineare propriamente l’assenza anche fisica del Signore nelle ore in cui il suo corpo è rimasto nel sepolcro. Tale mutamento rituale, rispetto all’origine i questi altari, nati proprio per evidenziare con solennità la permanenza di Gesù nel sepolcro, ci fa capire perché da più parti oggi si tenda a correggere l’espressione “altare del sepolcro” con “altare della reposizione”. Il termine “sepolcro”, tuttavia, non è sbagliato, perché ne esprime il suo originario significato e un intrinseco elemento connaturale al Corpo eucaristico del Signore.
Dal periodo barocco in avanti si registrò una vera e propria apoteosi di macchinari, le c.d. “machinae”, comprendenti sontuosi arredi e addobbi dell’altare della reposizione. Tra gli addobbi tipici di questi altari, ancora oggi in uso soprattutto nell’Italia meridionale, vanno ricordati i fiori bianchi e i germogli dei semi di grano o di lenticchie, coltivati al buio, che simboleggiano il passaggio dalle tenebre della morte alla vita.
In passato, veniva profuso grande impegno nell’allestimento dei ricchi addobbi del sepolcro col duplice intento di esprimere la propria fede verso Gesù Eucarestia nei giorni della sua Passione, e di creare l’effetto “stupore”, per affascinare il fedele spettatore e muovere in lui sentimenti di adorazione al Santissimo Sacramento. Spesso all’allestimento del sepolcro si accompagnava anche l’addobbo della chiesa, con altre macchine e numerosi drappi ornamentali di vario colore. Talvolta, tra le diverse Confraternite o Parrocchie, si ingenerava una gara a chi avesse creato il “sepolcro” più bello (i limiti dell’uomo sono tali). Studiosi di tradizioni popolari, tuttavia, rilevano che dagli anni ‘50, successivamente al rinnovamento dei riti della Settimana Santa (tra il 1951 e il 1955), la prassi di addobbare sontuosamente l’altare del sepolcro è andata lentamente scemando.
Da segnalare, tra le ulteriori peculiarità tradizionali del Sacro Triduo, che in questi giorni le donne evitavano di spazzare per terra e raccomandavano ai figli di non correre o saltare, perché Gesù era a terra, nel “sepolcro”. Tutta la terra, pertanto, era Santa!
La visita alle chiese, dove è custodito il SS. Sacramento, è ancora oggi, al di là delle mutate circostanze sociali e culturali un’occasione molto opportuna per riflettere nel silenzio della preghiera personale sul mistero pasquale del Signore Gesù.
Certamente l’Eucaristia è il “sacramento della presenza”. Ma ad essa non è estranea l’esperienza della Passione, Morte e Sepoltura del Signore. Nell’Eucaristia Gesù si rende presente come Signore, ma contemporaneamente si offre inerme. E’ “l’impotente efficace”, per dirla con una definizione del card. Scola. E’ una presenza sacrificata, consegnata, che si rimette alla nostra libertà, lasciandosi anche rinchiudere in un’urna, in una passività che è solo apparente. In attesa di vederlo uscire dal sepolcro di molti cuori.
Il "Cicilìu" di Pasqua
Domenica delle Palme 1 Aprile 2012, distribuzione del tradizionale “Ciciliu” pasquale a cura dell’Associazione “Maria SS. dell’Elemosina” e della Caritas parrocchiale della Chiesa Madre.
Redazione SME
Può avere le forme più diverse. Con uno o più uova di gallina. Può essere salato o dolce. Alcuni sono anche molto colorati, grazie all’uso delle codette colorate.
Stiamo parlando del tipico “Cicilìu” di Pasqua. Ogni siciliano sa di cosa si tratta. Per gli altri, è bene sapere che si tratta del preparato che contraddistingue le tavole siciliane nei giorni di Pasqua.
Nella civiltà contadina siciliana, infatti, esso rappresentava il tipico dono che ci si scambiava a Pasqua. Bello per la forma, nutriente e sostanzioso.
La preparazione costituisce un vero e proprio rito comunitario. Il “Cicilìu” è un prodotto che nasce per creare condivisione e comunione. In passato questo dato era ancora più evidente, quando ci si riuniva in casa per la preparazione dell’impasto. C’era chi era più esperto nell’abile creazione delle figure più elaborate. Altri facevano spicciola manovalanza, limitandosi a spennellare la pasta con l’uovo sbattuto. Tra le forme più tipiche vi è il “ciciliu” a forma di cestino o campana, che può contenere anche più di 2 uova, l’”aceddu cu l’ovu” e la “cuddura” di solito con un numero di uova dispari. Ogni forma aveva il suo significato: la ciambella rotonda di pasta a treccia era per gli amici (per consolidare il legame affettivo), quello a forma di cuore per l’amato, il galletto o la colomba per i ragazzi (con l’augurio di poter spiccare presto il volo), la pupa per le ragazze (augurio di feconda femminilità), il cestino per le famiglie (auspicio di abbondanza).
E’ facile immaginare che più uova ci sono, più il “Cicilìu” assume importanza e significato di rispetto a chi si dona. Sembrerebbe, addirittura, che in passato esistesse un vero e proprio “galateo del Cicilìu” in base al quale quello da donare al fidanzato doveva essere ornato con 9-11 o più uova, quello della suocera con 7 uova, quello dei cognati con 5, quello dei nipotini con 3.
Questi tipici dolci pasquali assumono nomi diversi in Sicilia a seconda della località in cui sono preparati:“campanaru” o “cannatuni” a Trapani, “pupu ccù l’ovu” a Palermo, “cannileri” nel nisseno, “panaredda” ad Agrigento e a Siracusa, “cuddura ccù l’ovu” e “ciciliu” a Catania, “palummedda” nella parte sud occidentale dell’isola.
Le ricette sono diverse, a seconda che si preferisca l’impasto del pane tradizionale o quello del biscotto. Per l’impasto di biscotto la ricetta potrebbe essere questa:
Ingredienti per l’impasto:
500gr Farina 00;
200gr zucchero;
200gr di uova (o 200gr di latte);
100gr di strutto (o burro);
1 bustina di lievito per dolci;
un pizzico di sale.
Ingredienti per decorare:
1 uovo sbattuto;
8, 10 uova sode;
1 confezione di codette, (in siciliano “cimini”);
1 pennellino.
Si fa la classica fontana e si impastano tutti gli ingredienti insieme. All’impasto viene data la forma che più si preferisce… chiocciole, polipi, rose, trecce… Quindi si aggiungono le uova, che impreziosiscono il tutto, nel numero desiderato, e si decora con le codette colorate, dette anche “diavulicchi”. Si depongono direttamente sulla teglia per infornare, si spennellano con un uovo sbattuto con un pò di latte e zucchero e si cuociono a 180° per una 15na di minuti (ovviamente questi tempi sono solo indicativi…. appena si colorano sono pronti!
Anche quest’anno, in occasione della Santa Pasqua, abbiamo voluto fare di questo nostro prodotto tipico uno strumento di solidarietà. Alcuni esemplari, davvero bellissimi, realizzati dalle donne dell’Associazione “Maria SS. dell’Elemosina” e della Caritas della Parrocchia Matrice, saranno venduti Domenica prossima in piazza Roma. Il ricavato sarà devoluto alle famiglie più bisognose.
Distribuzione: Piazza Roma, Biancavilla – Domenica delle Palme, dalle ore 9,30 alle ore 13,00 e dalle ore 18,00 alle ore 20,30.
Foto: Archivio SME