Novena di Pentecoste7: L' amore fa che Dio abiti nell' anima

MEDITAZIONE VII

di Sant’Alfonso M. de’ Liguori

Lo Spirito Santo si chiama dolce ospite dell’ anima. Questa fu la grande promessa fatta da Gesù Cristo a chi l’ama quando disse: Se voi mi amate, io pregherò il Padre, ed egli vi manderà lo Spirito Santo, affinché abiti sempre con voi (cfr. Gv 14,15-16).

Poiché lo Spirito Santo non abbandona mai un’ anima, se non è da quella discacciato (Conc. di Trento 1.6, cap. 11). Abita dunque Dio in un’anima che l’ama, ma si dichiara che non è contento se noi non l’amiamo con tutto il cuore. Scrive S. Agostino che il senato romano non volle ammettere Gesù Cristo nel numero degli dei, dicendo ch’egli è un Dio superbo che vuol essere solo ad essere adorato. E così è: egli non vuole compagni in quel cuore che ama, vuol essere solo ad abitarvi, solo ad essere amato. E quando non si vede solo ad essere amato, invidia, per così dire, come scrive S. Giacomo, quelle creature che tengono parte di quel cuore ch’ egli vorrebbe tutto per sé: Fino alla gelosia ci ama lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi (Gc 4,5). Perciò egli loda quell’ anima che, come la tortorella, vive solitaria e nascosta dal mondo (cfr. Ct 1,9) perché non vuole che il mondo si prenda parte di quell’ amore ch’ egli desidera tutto per sé. Perciò ancora loda la sua sposa chiamandola Orto chiuso ad ogni amore di terra (cfr. Ct 4,12).

Forse Gesù non si merita tutto il nostro amore? Dice il Crisostomo che Gesù ti ha dato tutto il suo sangue e la vita, non gli resta più che darti.

Affetti e preghiere

Mio Dio, vedo che mi vuoi tutto per te. lo tante volte ti ho scacciato dall’ anima mia, e tu non hai sdegnato di ritornare ad unirti con me. Prendi ora possesso di tutto me stesso. Oggi a te tutto mi dono; accettami, Gesù mio, e non permettere che io abbia da vivere per l’ avvenire neppure per un momento senza il tuo amore. Tu cerchi me, ed io non cerco altro che te. Tu vuoi l’ anima mia, e l’ anima mia non vuol altro che te. Tu mi ami, ed io ti amo; e giacché mi ami, legami con te, affinché da te io più non mi allontani.

O Regina del cielo, in te confido.

Pater, Ave, Gloria. 

A vent'anni dalla strage di Capaci risuonano le parole di GP II: la Chiesa in Sicilia deve risanare l'Isola dalla piaga della mafia

Vent’anni fa nella strage di Capaci (23 maggio 1992) perdevano tragicamente la vita  il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Per sottolineare l’evento che ha cambiato profondamente la Sicilia e i siciliani, pubblichiamo alcune riflessioni sulle parole che il Beato Giovanni Paolo II pronunciò ai siciliani nel corso delle sue 5 visite nell’sola.

Redazione SME

Lo storico anatema del Papa contro la mafia pronunciato ad Agrigento il 9 maggio 1993 è considerato il simbolo del rapporto del Beato Pontefice con la nosrta terra: «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il diritto divino alla vita…Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: Convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio!».

Molto prima dell’anatema di Agrigento, la prima visita del Papa in Sicilia (20-21 novembre dell’82) passò agli annali delle cronache come un’occasione mancata. Wojtyla – Pontefice da poco più di quattro anni – non pronunciò la parola mafia. E andarono deluse, tra mille polemiche, le attese di quanti chiedevano una posizione più netta in un’Isola scossa da omicidi eccellenti (a settembre era caduto il generale Dalla Chiesa) e da altissime denunce (l’«omelìa di Sagunto» del cardinale Pappalardo ai successivi funerali). In realtà, a rileggere quei discorsi si trovano però le fondamenta delle prese di posizione successive: «I fatti di violenza barbara – disse il Papa a Palermo il 21 novembre 1982 – che da troppo tempo insanguinano le strade di questa splendida città offendono la dignità umana…Occorre ridare forza alla voce della coscienza, che ci parla della legge di Dio». Parlando poi al clero sottolineò come «in questa drammatica realtà il Vangelo deve essere proclamato alto e forte. Perciò il ministero sacerdotale è chiamato ad una operosità che non conosca stanchezze».
Dopo i viaggi a Messina e Patti (11 e 12 giugno 1988), va ricordata la visita “ad limina” dei vescovi siciliani del 22 novembre 1991. Il Papa disse che per sanare la dilagante mentalità mafiosa è necessario riannunciare il Vangelo agli uomini della Sicilia e raggiungere in modo vitale e fino alle radici la loro cultura, impregnandola efficacemente della Buona Novella di Cristo, e sconvolgere mediante la sua forza i criteri di giudizio, i valori determinanti, i modelli di vita che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza…La Chiesa siciliana è chiamata, oggi come ieri, a condividere l’impegno, la fatica e i rischi di coloro che lottano, anche con discapito personale, per gettare le premesse di un futuro di progresso, di giustizia e di pace per l’intera isola”.
E’ la volta del viaggio del ’93, che oltre ad Agrigento, tocca Erice, Trapani, Mazara e Caltanissetta. Wojtyla volle incontrare i familiari di Falcone, Borsellino e Livatino (quest’ultimo definito davanti ai genitori “martire della giustizia, indirettamente della fede”).  Paragonò le cosche e le loro «catene ataviche di odio e vendetta» al frutto delle fatiche di Satana, invitò i sacerdoti a «risanare l’isola dalla piaga della mafia». Altrettanto nette le posizioni assunte l’anno dopo (4, 5 e 6 novembre ’94) a Catania e a Siracusa.
La prima sferzata è per la stessa Chiesa. Non basta la denuncia, occorre l’azione e la conversione. Per cambiare la mentalità dei siciliani è necessario fondare «una civiltà dell’amore come antidoto alla mafia». Quando il Vangelo non entra nella profondità della vita ma resta alla superficie nascono strani fenomeni di convivenza tra usanze religiose e costumi mafiosi (il già citato santino bruciato per l’iniziazione, la presenza degli «uomini di rispetto» alle processioni, le «letture religiose» di boss del calibro di Michele Greco o Pietro Aglieri…). “Catania, alzati! Rivestiti di luce e di giustizia” disse allo stadio Cibali di Catania nel 1994 e a Siracusa ribadì: «Per realizzare degnamente questo disegno di rievangelizzazione e di catechesi a tutti i livelli, è necessario il lavoro indefesso, costante, organizzato e concorde di tutte le forze disponibili del clero».
I sacerdoti devono essere pronti, in questa missione, al sacrificio anche della vita. Un compito assunto coscientemente in prima persona dallo stesso Pontefice. Per due volte, a Catania e a Siracusa, il Papa ricordò poi il martirio di don Pino Puglisi. E lo definì, tra gli applausi della folla, «coraggioso testimone del Vangelo». Significativo il riferimento durante la visita a Catania nel ’94: fu fatto durante la cerimonia di beatificazione per Madre Maddalena Morano. Il Papa invocò una serie di santi e di beati, di «grandi siciliani». Poi sollevò gli occhi un attimo e disse, anche stavolta a braccio, «penso anche a don Giuseppe Puglisi, coraggioso testimone della verità del Vangelo».
Nei suoi discorsi nell’Isola il Papa inquadrò i mali tipici dell’indolenza siciliana, di un popolo attraversato dalla «voglia di non fare» in tutte le classi sociali, dagli ultimi Gattopardi al ceto borghese, ai reietti delle periferie. A Siracusa spiegò: «Non cedete alle tentazioni dell’apatia, del torpore e della pigrizia, che conducono all’inerzia e all’accettazione fatalistica del male e dell’ingiustizia. Non serve limitarsi a deplorare le lacune della pubblica amministrazione, la conflittualità di gruppi politici che mirano esclusivamente al potere anziché al servizio. È necessario, invece, impegnarsi a dare una risposta agli ormai annosi mali sociali. È indispensabile riacquistare il senso e la voglia della partecipazione».
L’arretratezza economica siciliana, nella quale alligna la mafia, è frutto anche di carenze culturali. Ad Agrigento il Pontefice sottolineò: «È urgente, in una zona come la vostra a forte tasso di disoccupazione, promuovere una cultura dell’iniziativa, una cultura dell’impresa. A tal fine bisogna che si riscopra, specialmente tra le nuove generazioni, il gusto della creatività in ogni campo, compreso quello economico. Non ci si può aspettare tutto dagli altri, non si può pretendere tutto dallo Stato». Anche i dipendenti hanno la loro parte di responsabilità. Ecco un brano del discorso di Caltanissetta: «Alla carenza sul versante imprenditoriale ha fatto riscontro una inadeguata cultura del lavoro dipendente, segnata dalla logica del posto sicuro e non tanto da quella del lavoro concepito come diritto-dovere, secondo l’etica della professionalità. Hanno potuto così prosperare il clientelismo, l’assistenzialismo, l’illegalità».
Una così acuta analisi dei mali della Sicilia si chiuse nel ’95, all’ultima visita, con una nota di ottimismo e di speranza. E la Chiesa stessa, negli anni successivi, ha iniziato a porsi il problema del proprio rinnovamento e della propria presenza nella società siciliana. A che punto siamo?

Novena di Pentecoste6: L' amore è la virtù che dà forza

MEDITAZIONE VI

di Sant’Alfonso M. de’ Liguori

Forte come la morte è l’ amore (Ct 8,6). Siccome non vi è forza creata che resista alla morte, così non v’è difficoltà per un’ anima amante, che non ceda all’ amore. Quando si tratta di piacere all’amato, l’amore supera tutto, perdite, disprezzi e dolori. Niente è così difficile da non esser vinto dal fuoco, come dice sant’ Agostino. Questo è il contrassegno più certo per conoscere se un’anima veramente ama Dio: se è fedele nel suo amore così nelle cose prospere come nell’ avverse.

Diceva S. Francesco di Sales che «Dio tanto è amabile quando ci consola come quando ci flagella, perché tutto fa per amore». Anzi quando più ci flagella in questa vita, allora più ci ama. S. Giovanni Grisostomo stimava più felice S. Paolo incatenato, che S. Paolo rapito al terzo cielo. Perciò i santi martiri, stando nei tormenti, giubilavano e ne ringraziavano il Signore, come della grazia più grande che a loro faceva dando loro di patire per suo amore. E gli altri santi, ove sono mancati i tiranni ad affliggerli, essi sono divenuti carnefici di loro stessi con le penitenze, per dar gusto a Dio. Dice S. Agostino che chi ama non fatica, e se fa fatica ama la fatica che fa.

Affetti e preghiere

O Dio dell’ anima mia, io dico che ti amo; ma poi che faccio per amor tuo? Niente. Dunque è segno che non ti amo o ti amo troppo poco. Mandami dunque, o Gesù mio, lo Spirito Santo, che venga a darmi forza di patire per tuo amore, e di far qualche cosa per te prima che mi giunga la morte. Non farmi morire, amato mio Redentore, così freddo ed ingrato come ti sono stato finora. Dammi vigore ad amare il patire, dopo tanti peccati che mi hanno meritato l’ inferno.

O mio Dio tutto bontà e tutto amore, tu desideri di abitare nell’ anima mia da cui tante volte ti ho discacciato; vieni, abita, possiedila e renditela tutta tua. lo ti amo, o Signor mio, e se ti amo tu già stai con me, come assicura S. Giovanni: Chi sta nell’ amore dimora in Dio e Dio dimora in lui (1 Gv 4,16). Poiché dunque tu stai con me, accresci le fiamme, accresci le catene, affinché io non brami, non cerchi, non ami altri che te, e così legato non abbia mai a separarmi dal tuo amore. lo voglio essere tuo, o Gesù mio, e tutto tuo.

O regina ed avvocata mia Maria, ottienimi amore e perseveranza

Pater, Ave, Gloria.

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