Verso il Convegno12: La vera trasgressione è la fedeltà

Contrariamente a quanto si vorrebbe far credere, i bambini soffrono quando il padre e la madre non stanno più insieme e si sentono privi di punti di riferimento saldi e certi. Costanza Miriano in questo articolo prende posizione sulla mentalità corrente che inneggia all’autorealizzazione e alla felicità e basso costo, dipingendo famiglie allargate in cui tutti sono belli e felici. E torna a parlare di fedeltà come vera trasgressione.

di Costanza Miriano

Qualche tempo fa la mamma di un amichetto dei miei figli mi ha incautamente detto della sua decisione di separarsi. Non sapeva che non sono capace di farmi i fatti miei, e che le missioni impossibili mi conquistano immediatamente alla loro causa. Non sapeva che da allora in poi avrei cominciato a tormentarla.
Per prima cosa, visto che la notizia non era segreta, ho cominciato a dirlo alle amiche comuni, a quelle che mi sembravano affidabili. A telefonare. A strattonarle, a fermarle per strada. Mi sembrava impossibile che non si potesse fare niente, e così pensavo che formando un cordone sanitario intorno alla nostra amica, non so, offrendole consigli non richiesti (la mia specialità) e serate gratuite di baby sitting per permetterle di uscire sola col marito, avremmo certamente impedito questa separazione, non motivata da un evento serio e irreparabile. E invece mi sentivo rispondere “Deve trovare se stessa”, “meglio per i bambini avere una madre realizzata”, “si può rimanere buoni amici”, “i bambini non soffrono”. Quasi nessuna condivideva il mio zelo da venditrice di aspirapolvere.
Pensavo che cose simili le potesse dire magari chi attraversa un periodo difficile del proprio matrimonio, obnubilato forse dal dolore, dalla difficoltà, dallo scoraggiamento. Invece ho dovuto constatare che dopo anni di bombardamento da tutti i mezzi di comunicazione possibili, cinema e tv in testa, giornali e radio a seguire, questa è diventata la mentalità dominante. La missione, azzerare la famiglia, è stata compiuta, nel pensiero comune.
Come è potuto verificarsi un ottundimento tanto globale delle menti? Un oscuramento tanto evidente della verità? Chi ha manipolato tanto le menti, così da mettere in discussione le più pacifiche verità, cioè tanto per cominciare che i bambini hanno bisogno di due genitori che stanno stabilmente insieme, che dormono sotto lo stesso tetto, che sanno superare, se ci sono, anche i momenti di dubbio e di stanchezza? Chi ci ha convinti che “realizzare noi stessi” è il primo nostro dovere? Chi ci ha detto che tutto quello che ci viene spontaneo dal cuore è comunque buono, e non va vagliato?
Io ho idea che una buona parte l’abbia fatta non la propaganda diretta, come quella che possono mettere in campo i giornali, magari schierandosi su temi sensibili quali quelli dei pacs o, all’epoca, del divorzio. Credo che più di tutto abbiano potuto i film e i telefilm, le serie, le fiction che propongono in continuazione modelli “alternativi” di famiglia, non solo come se fossero anche quelli accettabili, ma anzi come se quelli fossero più allegri, più sani, più moderni, più giusti. E’ un modo di comunicare subdolo e potentissimo, proprio perché indiretto. “Lo diamo per scontato, che va bene. Lo vedete come sono felici? Non sono rimasti insieme ma sono amici!”
Non sono una buona spettatrice di fiction, ho poco tempo e ogni volta che mi siedo mi addormento (a onore della fiction devo dire che mi addormento ovunque, mica solo davanti alla tv: in metro, in auto ai semafori, in chiesa, in fila alle poste). Però qualche volta mi capita di accendere la televisione, e di fermarmi a guardare qualche pezzo di puntata (soprattutto se devo stirare, cosa che rende meno agevole l’addormentamento). Be’, sarò poco intelligente, sarò poco allenata a cogliere gli intrecci, ma quando vedo, per esempio, Tutti pazzi per amore non capisco mai chi sta con chi, anche se è stato con qualcun altro, e gli piace un’altra, e anche a lei, ma vuole un figlio dall’ex che però deve farlo di nascosto dal figlio grande che convive con un’amica ma non si sa se è un’amica proprio o un’amica di letto, che aspetta un bambino ma non si ricorda esattamente da chi. Quando comincio a intuire la storia, la puntata finisce.
Mi è capitato anche di vedere Un medico in famiglia, e anche lì se non sbaglio papà e mamma non stanno insieme, qualche nuova fidanzata, sempre giovane e rigorosamente carina, fa capolino, i figli fuori dal matrimonio sono la norma, e scarsissime sono le tracce di una famiglia normale. Un uomo e una donna che si sposano e fanno figli. Punto.
Deve essere che non è attraente. Non c’è brivido. Sceneggiatori pigri e conformisti evidentemente pensano, tutti in blocco compatto, che la novità stia nel cambiare persone con le quali avere a che fare; certo, così è più facile creare il brivido, piuttosto che cercare l’unica novità possibile, quella che cambia noi stessi, che ci converte, che ci rende amabili sempre alla stessa persona, nonostante la ripetitività. Non devono avere capito che la vera trasgressione è essere fedeli, perché essere infedeli è la cosa più semplice e facile, e quindi non è trasgressione, ma un semplice assecondare il flusso delle cose. Non deve essergli arrivata la notizia che l’amore è una meravigliosa fatica che ti fa snidare il bello nascosto tra le pieghe del quotidiano.
Certo, ci vorrebbe un piccolo sforzo di scrittura in più, una recitazione più raffinata, forse, una regia più sapiente che sappia stupire facendo vedere squarci di eterno in quella che da fuori sembra solo l’ennesima cena in famiglia, con i soliti capricci e la stanchezza, ma a quel punto uno dei familiari sa mettere una pietra sul suo orgoglio, venire incontro, mettere da parte la sua convinzione, dire un altro sì e spalancare una nuova luce su quello che sembrava solo l’ennesimo scambio di battute sulle solite posizioni.
La vera trasgressione è trovare nuove strade per l’amore, inventarlo, portare i pesi gli uni degli altri, non scaricare i propri cambiando “partner” perché non ci piace più l’immagine che l’altro ci rimanda.
La vera trasgressione è anche stare al proprio posto di combattimento per i figli, perché sì, a volte può anche capitare di rimanere per loro, e non c’è niente di irragionevole, e nemmeno cento puntate di telefilm mi convinceranno che i bambini quando il padre e la madre non stanno più insieme non soffrono, non si sentono strappare la loro stessa carne, non si sentono privi di punti di riferimento saldi e certi partendo dai quali affronteranno il mondo sapendo che, per quanto le cose possano andare male, qualcosa di sicuro c’è. Un padre e una madre che sono solo figura del Padre e della Madre eterni, che ad essi rimandano, e a loro ci accompagnano.

Verso il Convegno11: Anche il castigo ad un figlio è un atto d’amore

Dare tutto ai figli è davvero un buon metodo edcativo? Ha ancora senso parlare di punizioni e di castighi davanti a padri e madri che spesso si ritrovano a subire la tirannia – se non gli insulti – dei loro piccoli? Il seguente contributo di Andrea Giovanoli apre il varco su un argomento molto delicato, come quello del rapporto tra genitori e figli, su cui avremo modo di riflettere in occasione del CONVEGNO della famiglia del prossimo 25 GENNAIO.

di Andrea Torquato Giovanoli

Nel metodo educativo della nostra piccola famiglia vige un diritto penale molto semplice e radicale (con buona pace del dottor Spock; no, non quello di Star Trek), il cui codice contempla tre regole auree: 1) ai capricci corrispondono gli scapaccioni, 2)  alla disobbedienza corrisponde il castigo e 3) le affermazioni come “io voglio”, “dammi” e “mi compri” sono il metodo più sicuro e diretto per non essere accontentati.

La società contemporanea ed i suoi pedagoghi ci tacceranno di arretratezza ed oscurantismo, ma mia moglie ed io abbiamo sperimentato che per ora questa normativa elementare funziona benissimo con i nostri figli (poi, al giungere dell’adolescenza, forse, se ne riparlerà), anche perché di contrappeso entrambi elargiamo immisurate quantità di coccole, tempo e dedizione alla nostra prole, tanto che tutto ciò di cui hanno realmente bisogno (ossia l’amore dei loro genitori) è per loro garantito.

Premesso questo, l’altro giorno mia moglie rientra da un pomeriggio passato col cinquenne in visita ad amici. Li accolgo in casa con entusiasmo, ma appena li vedo subito noto l’aria furbetta del pupo contrapposta al broncio corrucciato della consorte, la quale esordisce annunciando ad alta voce la reiterata disobbedienza del figliolo durante tutto il tempo passato insieme.

Pur contro al mio buonumore per il ritorno dei miei cari al focolare, mi costringo a vestire immediatamente la maschera del padre severo, improvviso un processo sommario durante il quale fingo di amministrare la giustizia con una sapienza che pare riecheggiare una sorta di “mandato celeste”, e sentenzio la pena che il pargolo dovrà scontare: niente “staccattacca”, figurine e tatuaggi lavabili fino al “Giorno del Perdono” (che nel nostro gergo famigliare sarebbe poi la Domenica, “Festa di Gesù” durante la quale due sono le certezze per i nostri bimbi: la partecipazione alla Messa ed il perdono, appunto, di tutte le punizioni, con immediata restituzione di tutti gli eventuali giocattoli sotto sequestro).

Chiuso il caso, dopo una breve spiegazione della consequenzialità tra delitto e castigo all’imputato, posso finalmente deporre la toga del magistrato, far smettere a mia moglie quella della pubblica accusa, e tornare ad essere per mio figlio il “papà” e non il “padre”.

Tuttavia l’episodio mi lascia un’impronta nel cuore, e mentre cerco di metabolizzarlo, mi ritrovo a pensare a quanto anche al Padre debba costare il giudizio sulle “marachelle” dei suoi figli, tanto che prima ancora che Adamo peccasse ne aveva già predisposto la redenzione nel Figlio, redenzione che, per inciso, è “violenza” autoinflitta che Dio perpetra con la Sua Misericordia ai danni, proprio, della Sua Giustizia.

Ed il giudizio di quei figli, che Egli ama d’amore pazzo che si fa crocifiggere, al Padre pesa tanto che appena ha potuto l’ha rimesso al Figlio, così che a giudicar l’uomo non sia più l’Altissimo, il Totalmente Altro, ma il Dio-fatto-uomo, il “fratello maggiore” per così dire, praticamente un suo “pari”!

Che poi, a ben vedere, persino il castigo è un atto d’amore, fin dalla radice della parola stessa che significa “rendere nuovamente casti”; è l’atto d’amore con cui il Signore corregge la deviazione da quella Via che costituisce il vero bene per l’uomo; è una proposta di conversione a quei comandamenti che in realtà sono paterne raccomandazioni: “Sappi, amata creatura, che se non centrerai il tuo cuore su di Me, che sono il tuo Creatore ed il tuo Sommo Bene, non potrai essere felice, poiché è iscritto nella tua stessa natura il desiderio di comunione con Me. Ed Io lo so bene, perché sono Io che ti ho fatto così” (Cfr. Esodo 20,3).

Spesso, inoltre, Dio non ha nemmeno tanto da lambiccarsi il cervello per trovar punizioni a chi si ribella al Suo amore: è quasi sempre sufficiente  ch’Egli smetta di proteggere con la Sua Grazia l’uomo, e che lo lasci  sperimentare un tantino le conseguenze delle sue azioni, toccare con mano la sua finitezza ontologica nel dolore delle sue scelte sbagliate. Poiché se Dio è il Sommo Giusto, l’Assoluto Bene, l’Unico Buono ed il Massimo Amore, allora il rifiutarlo significa necessariamente abbracciare l’errore, il  male, la cattiveria e l’odio.

Ecco perciò che nel rivivere il mio ruolo di padre mi trovo nel tentativo di  ricalcare l’amore viscerale del Padre per me e per tutti, così mi rassicuro,  poiché nel comminare il castigo convengo al bene di mio figlio ed i miei  ”no” fertilizzano la sua corretta crescita, nella sua vocazione ad essere  una persona migliore, mia precipua responsabilità e, per coincidenza, anche  comunione d’intenti con la volontà divina. Così, pur nell’enorme difficoltà  di dover decidere le “potature” adatte alla miglior educazione dell’amato  virgulto, mi godo il trasmutarsi di tale grave responsabilità, che vissuta  in Cristo diviene invero beatitudine, e sorrido sotto i baffi al pensiero  che questa volta, essendo solo martedì, gli è andata male al mio cucciolotto, ma quanto maggiore sarà la festa, quando poi giungerà la  Domenica: quel primo giorno dopo il sabato che per lui, ci scommetto, questa  settimana sarà una vera Pasqua di risurrezione

Verso il Convegno10: Il pianto di un bambino, l’abbraccio dei genitori

Oggi Andrea ci propone una profonda riflessione sulla fede dei bambini, a partire dall’osservazione del pianto del suo piccolo. Che cos’è il pianto di un bambino, se non la segreta fiducia che ci sia qualcuno che possa abbracciarlo? La fede è un dato ineliminabile della natura umana. Basta osservare la naturezza con cui un bambino si consegna alle braccia dei suoi genitori.

 

di Andrea Torquato Giovanoli

Mille cose da fare: così mia moglie ed io, mentre il grande è all’asilo, una volta soddisfatte tutte le sue necessità, spesso piazziamo il piccolino in culla o sul divano, od anche sul lettone, attorniato dai cuscini. E lui rimane lì, a guardarsi intorno e scoprendo il mondo, oppure si lascia distrarre dai giochini che lo circondano, o invece si addormenta, ma sempre, e dico sempre, al passaggio di uno dei due genitori accanto a lui si blocca, spalanca gli occhi in un muto richiamo, allarga le sue braccine ed inizia a sgambettare frenetico, muovendo nell’aria passi svelti che hanno una sola meta: l’abbraccio del genitore.

Ma ci sono mille cose da fare e molte volte lo si lascia lì e si passa oltre, fingendo di non vederlo per non incorggiare la sua voglia di noi, almeno fino a quando non si mette a strillare la sua protesta, e allora con cuore contrito si accorre a lui, dandogli ragione della sua pazienza.
Ma stamattina di fronte a quel suo atteggiamento gaiamente querulo mi sono fermato un momento ed un pensiero mi ha fulminato: siamo tutti dei credenti!
O almeno lo siamo stati un tempo: prima che le croste dei nostri preconcetti ci radicassero nella cieca negazione dell’evidenza. Già: perché tutti gli uomini nascono con un vagito che è ben più di un primo, doloroso respiro. Poiché il pianto del neonato è in realtà una professione di fede: l’espressione di un’inconscia certezza che esiste un altro, più grande di lui, che è in grado di soddisfare le sue esigenze. Una speranza incisa nella profonda intimità dell’animo umano che sgorga nelle lacrime del bimbo anche quando non c’è nessuno intorno a lui per udirla, anche quando è realmente abbandonato a se stesso, magari nelle asfittiche recondità di un cassonetto, e destinato alla morte per la sua prematura insufficienza.
Il grido del bambino è quel medesimo richiamo del Crocifisso, quell’ «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che non è disperazione, ma richiesta di abbandono nelle mani del Padre silenzioso: quel pianto che manifesta la consapevolezza di un’alterità esperita fin dal grembo materno. È un desiderio di Assoluto che l’uomo modula con frequenze diverse nell’arco di tutta la sua vita, da quando è il “grumo di cellule” che da quell’utero in grado di accoglierlo invia messaggi chimici per segnalare la sua presenza, fino all’esalazione di quell’ultimo fiato nel quale l’anima necessariamente si rilascia alle mani del Mistero.
E come il pianto di un bambino risulta irresistibile a qualunque genitore, così l’anelito dell’uomo, anche laddove rimane inespresso, è intollerabile al cuore di quel Padre che si china su di lui per soccorrerlo, ogni volta, fino a farsi carne, fino a morire in croce, per poi abbracciarne il destino nella Sua risurrezione ed assumerlo con Sé nell’intimo della Sua eternità.

Così mi ridesto dallo spettacolo di cotanta misericordia, che scopro racchiusa in quegli occhioni che mi fissano dalla culla, e davanti a quelle manine tese e a quelle gambette turbinanti mi si riassettano nella mente e nel cuore tutte le priorità: perché ho sì mille cose da fare, bimbo mio, ma il raccoglierti per stropicciarti un po’ è proprio in cima alla mia lista…

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