In una foto d’inizio 900 è ritratta la fede dell’uomo di ogni tempo, che non può rinunciare alla bellezza come motore di fede e di speranza. Poiché: “non di solo pane vive l’uomo…”.
di Alessandro Scaccianoce
Navigando nel web mi sono imbattuto casualmente in quest’antica foto, ricca di grande suggestione. Una foto che risale addirittura al 25 marzo 1910, Venerdì Santo. Essa raffigura l’altare del “sepolcro” realizzato nella chiesa “Colleggiata” di S. Maria Maggiore di Laurino, un piccolo comune di montagna del Cilento, in provincia di Salerno (circa duemila anime). La foto, pubblicata sul sito www.zadalampe.com, è stata scattata da un compaesano, barbiere, ma con la passione per la camera oscura: tale Emilio Durante.
Già la data della foto è molto ricca di significato. Il 1910 è stato uno degli anni, piuttosto rari, in cui nello stesso giorno si celebrava l’Annunciazione del Signore e la sua passione e morte. A tal proposito, giova ricordare che nell’antichità molti Padri della Chiesa, tra cui Tertulliano e Leone Magno, ritenevano che il 25 marzo fosse il giorno dell’Annunciazione e, insieme, il giorno della morte di Cristo. Scrive Sant’Agostino: «La Chiesa ha ricevuto dagli antichi e conferma con la sua autorità la tradizione secondo la quale si crede che (Gesù) sia stato concepito il 25 marzo, che è anche il giorno della sua Passione». Secondo tale tradizione, ricca di molti significati, come nell’equinozio di primavera (25 marzo, ora 21 marzo) erano stati creati il mondo e l’uomo, così in quello stesso giorno il Signore si sarebbe incarnato dalla Vergine e sarebbe morto in croce.
Ma torniamo alla nostra foto. Proviamo a fare alcune considerazioni. Si tratta di un vero e proprio documento storico. Non doveva essere usuale, in quel tempo, scattare fotografie. Ciò è ancora più sorprendente se si pensa che ad essere fotografato sarebbe qualcosa di inanimato come “il sepolcro”. Dell’autore di questa foto, infatti, si conservano altri lavori, ma quella in questione sembra essere davvero un “unicum”. L’oggetto catturato dall’obiettivo è presto detto: tante candele, una selva, che nasconde in alto al centro l’urna ove è riposto il SS. Sacramento (secondo una foggia comune e ben diffusa a forma di “bara”), il tutto arricchito dai primi germogli della vegetazione primaverile (probabilmente grano). Ai piedi dell’altare giace un elegante simulacro del Cristo morto.
Ai lati della foto, in primo piano, una folla di uomini (a sinistra verosimilmente il sacrista, che tiene in mano la canna con cui ha appena finito di accendere le tante candele), donne e bambini, con la faccia segnata dal lavoro, in abiti umili. Sembra stridere il contrasto tra quella realtà contadina e povera, con la ricchezza dell’allestimento.
Eppure, in questi pochi centimetri è immortalata la fede pasquale di quella gente. In quegli occhi luminosi e segnati dalla fatica, sembra di scorgere un pensiero di questo tipo: “non possiamo rinunciare alla nostra fede; perché la nostra fede ci salva”. La sontuosità di quell’altare non fa scandalo ai presenti, come invece accadrebbe per certa mentalità odierna, secolarizzata. Non è difficile immaginare il lavoro e i sacrifici fatti per allestire con tanta cura e bellezza quell’altare. Certamente un’opera collettiva di cui quei fedeli appaiono molto orgogliosi. Da quell’altare che commemora la morte del Signore, promana speranza di vita.
In fondo, in quegli occhi c’è lo stesso spirito di fede che nei secoli ha consentito di innalzare monumenti e capolavori di bellezza. Perché la bellezza dice la fede, e la fede salva il mondo. Tante volte, quando manca la bellezza, è probabile che manchi anche la fede…