Dare tutto ai figli è davvero un buon metodo edcativo? Ha ancora senso parlare di punizioni e di castighi davanti a padri e madri che spesso si ritrovano a subire la tirannia – se non gli insulti – dei loro piccoli? Il seguente contributo di Andrea Giovanoli apre il varco su un argomento molto delicato, come quello del rapporto tra genitori e figli, su cui avremo modo di riflettere in occasione del CONVEGNO della famiglia del prossimo 25 GENNAIO.
di Andrea Torquato Giovanoli
Nel metodo educativo della nostra piccola famiglia vige un diritto penale molto semplice e radicale (con buona pace del dottor Spock; no, non quello di Star Trek), il cui codice contempla tre regole auree: 1) ai capricci corrispondono gli scapaccioni, 2) alla disobbedienza corrisponde il castigo e 3) le affermazioni come “io voglio”, “dammi” e “mi compri” sono il metodo più sicuro e diretto per non essere accontentati.
La società contemporanea ed i suoi pedagoghi ci tacceranno di arretratezza ed oscurantismo, ma mia moglie ed io abbiamo sperimentato che per ora questa normativa elementare funziona benissimo con i nostri figli (poi, al giungere dell’adolescenza, forse, se ne riparlerà), anche perché di contrappeso entrambi elargiamo immisurate quantità di coccole, tempo e dedizione alla nostra prole, tanto che tutto ciò di cui hanno realmente bisogno (ossia l’amore dei loro genitori) è per loro garantito.
Premesso questo, l’altro giorno mia moglie rientra da un pomeriggio passato col cinquenne in visita ad amici. Li accolgo in casa con entusiasmo, ma appena li vedo subito noto l’aria furbetta del pupo contrapposta al broncio corrucciato della consorte, la quale esordisce annunciando ad alta voce la reiterata disobbedienza del figliolo durante tutto il tempo passato insieme.
Pur contro al mio buonumore per il ritorno dei miei cari al focolare, mi costringo a vestire immediatamente la maschera del padre severo, improvviso un processo sommario durante il quale fingo di amministrare la giustizia con una sapienza che pare riecheggiare una sorta di “mandato celeste”, e sentenzio la pena che il pargolo dovrà scontare: niente “staccattacca”, figurine e tatuaggi lavabili fino al “Giorno del Perdono” (che nel nostro gergo famigliare sarebbe poi la Domenica, “Festa di Gesù” durante la quale due sono le certezze per i nostri bimbi: la partecipazione alla Messa ed il perdono, appunto, di tutte le punizioni, con immediata restituzione di tutti gli eventuali giocattoli sotto sequestro).
Chiuso il caso, dopo una breve spiegazione della consequenzialità tra delitto e castigo all’imputato, posso finalmente deporre la toga del magistrato, far smettere a mia moglie quella della pubblica accusa, e tornare ad essere per mio figlio il “papà” e non il “padre”.
Tuttavia l’episodio mi lascia un’impronta nel cuore, e mentre cerco di metabolizzarlo, mi ritrovo a pensare a quanto anche al Padre debba costare il giudizio sulle “marachelle” dei suoi figli, tanto che prima ancora che Adamo peccasse ne aveva già predisposto la redenzione nel Figlio, redenzione che, per inciso, è “violenza” autoinflitta che Dio perpetra con la Sua Misericordia ai danni, proprio, della Sua Giustizia.
Ed il giudizio di quei figli, che Egli ama d’amore pazzo che si fa crocifiggere, al Padre pesa tanto che appena ha potuto l’ha rimesso al Figlio, così che a giudicar l’uomo non sia più l’Altissimo, il Totalmente Altro, ma il Dio-fatto-uomo, il “fratello maggiore” per così dire, praticamente un suo “pari”!
Che poi, a ben vedere, persino il castigo è un atto d’amore, fin dalla radice della parola stessa che significa “rendere nuovamente casti”; è l’atto d’amore con cui il Signore corregge la deviazione da quella Via che costituisce il vero bene per l’uomo; è una proposta di conversione a quei comandamenti che in realtà sono paterne raccomandazioni: “Sappi, amata creatura, che se non centrerai il tuo cuore su di Me, che sono il tuo Creatore ed il tuo Sommo Bene, non potrai essere felice, poiché è iscritto nella tua stessa natura il desiderio di comunione con Me. Ed Io lo so bene, perché sono Io che ti ho fatto così” (Cfr. Esodo 20,3).
Spesso, inoltre, Dio non ha nemmeno tanto da lambiccarsi il cervello per trovar punizioni a chi si ribella al Suo amore: è quasi sempre sufficiente ch’Egli smetta di proteggere con la Sua Grazia l’uomo, e che lo lasci sperimentare un tantino le conseguenze delle sue azioni, toccare con mano la sua finitezza ontologica nel dolore delle sue scelte sbagliate. Poiché se Dio è il Sommo Giusto, l’Assoluto Bene, l’Unico Buono ed il Massimo Amore, allora il rifiutarlo significa necessariamente abbracciare l’errore, il male, la cattiveria e l’odio.
Ecco perciò che nel rivivere il mio ruolo di padre mi trovo nel tentativo di ricalcare l’amore viscerale del Padre per me e per tutti, così mi rassicuro, poiché nel comminare il castigo convengo al bene di mio figlio ed i miei ”no” fertilizzano la sua corretta crescita, nella sua vocazione ad essere una persona migliore, mia precipua responsabilità e, per coincidenza, anche comunione d’intenti con la volontà divina. Così, pur nell’enorme difficoltà di dover decidere le “potature” adatte alla miglior educazione dell’amato virgulto, mi godo il trasmutarsi di tale grave responsabilità, che vissuta in Cristo diviene invero beatitudine, e sorrido sotto i baffi al pensiero che questa volta, essendo solo martedì, gli è andata male al mio cucciolotto, ma quanto maggiore sarà la festa, quando poi giungerà la Domenica: quel primo giorno dopo il sabato che per lui, ci scommetto, questa settimana sarà una vera Pasqua di risurrezione