Vent’anni fa nella strage di Capaci (23 maggio 1992) perdevano tragicamente la vita  il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Per sottolineare l’evento che ha cambiato profondamente la Sicilia e i siciliani, pubblichiamo alcune riflessioni sulle parole che il Beato Giovanni Paolo II pronunciò ai siciliani nel corso delle sue 5 visite nell’sola.

Redazione SME

Lo storico anatema del Papa contro la mafia pronunciato ad Agrigento il 9 maggio 1993 è considerato il simbolo del rapporto del Beato Pontefice con la nosrta terra: «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il diritto divino alla vita…Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: Convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio!».

Molto prima dell’anatema di Agrigento, la prima visita del Papa in Sicilia (20-21 novembre dell’82) passò agli annali delle cronache come un’occasione mancata. Wojtyla – Pontefice da poco più di quattro anni – non pronunciò la parola mafia. E andarono deluse, tra mille polemiche, le attese di quanti chiedevano una posizione più netta in un’Isola scossa da omicidi eccellenti (a settembre era caduto il generale Dalla Chiesa) e da altissime denunce (l’«omelìa di Sagunto» del cardinale Pappalardo ai successivi funerali). In realtà, a rileggere quei discorsi si trovano però le fondamenta delle prese di posizione successive: «I fatti di violenza barbara – disse il Papa a Palermo il 21 novembre 1982 – che da troppo tempo insanguinano le strade di questa splendida città offendono la dignità umana…Occorre ridare forza alla voce della coscienza, che ci parla della legge di Dio». Parlando poi al clero sottolineò come «in questa drammatica realtà il Vangelo deve essere proclamato alto e forte. Perciò il ministero sacerdotale è chiamato ad una operosità che non conosca stanchezze».
Dopo i viaggi a Messina e Patti (11 e 12 giugno 1988), va ricordata la visita “ad limina” dei vescovi siciliani del 22 novembre 1991. Il Papa disse che per sanare la dilagante mentalità mafiosa è necessario riannunciare il Vangelo agli uomini della Sicilia e raggiungere in modo vitale e fino alle radici la loro cultura, impregnandola efficacemente della Buona Novella di Cristo, e sconvolgere mediante la sua forza i criteri di giudizio, i valori determinanti, i modelli di vita che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza…La Chiesa siciliana è chiamata, oggi come ieri, a condividere l’impegno, la fatica e i rischi di coloro che lottano, anche con discapito personale, per gettare le premesse di un futuro di progresso, di giustizia e di pace per l’intera isola”.
E’ la volta del viaggio del ’93, che oltre ad Agrigento, tocca Erice, Trapani, Mazara e Caltanissetta. Wojtyla volle incontrare i familiari di Falcone, Borsellino e Livatino (quest’ultimo definito davanti ai genitori “martire della giustizia, indirettamente della fede”).  Paragonò le cosche e le loro «catene ataviche di odio e vendetta» al frutto delle fatiche di Satana, invitò i sacerdoti a «risanare l’isola dalla piaga della mafia». Altrettanto nette le posizioni assunte l’anno dopo (4, 5 e 6 novembre ’94) a Catania e a Siracusa.
La prima sferzata è per la stessa Chiesa. Non basta la denuncia, occorre l’azione e la conversione. Per cambiare la mentalità dei siciliani è necessario fondare «una civiltà dell’amore come antidoto alla mafia». Quando il Vangelo non entra nella profondità della vita ma resta alla superficie nascono strani fenomeni di convivenza tra usanze religiose e costumi mafiosi (il già citato santino bruciato per l’iniziazione, la presenza degli «uomini di rispetto» alle processioni, le «letture religiose» di boss del calibro di Michele Greco o Pietro Aglieri…). “Catania, alzati! Rivestiti di luce e di giustizia” disse allo stadio Cibali di Catania nel 1994 e a Siracusa ribadì: «Per realizzare degnamente questo disegno di rievangelizzazione e di catechesi a tutti i livelli, è necessario il lavoro indefesso, costante, organizzato e concorde di tutte le forze disponibili del clero».
I sacerdoti devono essere pronti, in questa missione, al sacrificio anche della vita. Un compito assunto coscientemente in prima persona dallo stesso Pontefice. Per due volte, a Catania e a Siracusa, il Papa ricordò poi il martirio di don Pino Puglisi. E lo definì, tra gli applausi della folla, «coraggioso testimone del Vangelo». Significativo il riferimento durante la visita a Catania nel ’94: fu fatto durante la cerimonia di beatificazione per Madre Maddalena Morano. Il Papa invocò una serie di santi e di beati, di «grandi siciliani». Poi sollevò gli occhi un attimo e disse, anche stavolta a braccio, «penso anche a don Giuseppe Puglisi, coraggioso testimone della verità del Vangelo».
Nei suoi discorsi nell’Isola il Papa inquadrò i mali tipici dell’indolenza siciliana, di un popolo attraversato dalla «voglia di non fare» in tutte le classi sociali, dagli ultimi Gattopardi al ceto borghese, ai reietti delle periferie. A Siracusa spiegò: «Non cedete alle tentazioni dell’apatia, del torpore e della pigrizia, che conducono all’inerzia e all’accettazione fatalistica del male e dell’ingiustizia. Non serve limitarsi a deplorare le lacune della pubblica amministrazione, la conflittualità di gruppi politici che mirano esclusivamente al potere anziché al servizio. È necessario, invece, impegnarsi a dare una risposta agli ormai annosi mali sociali. È indispensabile riacquistare il senso e la voglia della partecipazione».
L’arretratezza economica siciliana, nella quale alligna la mafia, è frutto anche di carenze culturali. Ad Agrigento il Pontefice sottolineò: «È urgente, in una zona come la vostra a forte tasso di disoccupazione, promuovere una cultura dell’iniziativa, una cultura dell’impresa. A tal fine bisogna che si riscopra, specialmente tra le nuove generazioni, il gusto della creatività in ogni campo, compreso quello economico. Non ci si può aspettare tutto dagli altri, non si può pretendere tutto dallo Stato». Anche i dipendenti hanno la loro parte di responsabilità. Ecco un brano del discorso di Caltanissetta: «Alla carenza sul versante imprenditoriale ha fatto riscontro una inadeguata cultura del lavoro dipendente, segnata dalla logica del posto sicuro e non tanto da quella del lavoro concepito come diritto-dovere, secondo l’etica della professionalità. Hanno potuto così prosperare il clientelismo, l’assistenzialismo, l’illegalità».
Una così acuta analisi dei mali della Sicilia si chiuse nel ’95, all’ultima visita, con una nota di ottimismo e di speranza. E la Chiesa stessa, negli anni successivi, ha iniziato a porsi il problema del proprio rinnovamento e della propria presenza nella società siciliana. A che punto siamo?

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