Riflessioni a margine degli episodi che si sono verificati al rientro della processione per le modifiche al tragitto tradizionale.
di Alessandro Scaccianoce
Con grande sofferenza prendiamo atto dei disordini che si sono registrati nell’ultima fase della processione di Sant’Agata. Dopo la decisione di saltare la salita di via Di Sangiuliano, per la scivolosità del pavimento che avrebbe reso assai pericoloso quel tratto di strada, alcuni devoti hanno manifestato apertamente il loro dissenso, contestando la decisione che ha fatto saltare il passaggio del fercolo da via Crociferi anticipando il rientro della Santa in Cattedrale, avvenuto intornoi alle 9,15 di lunedì 6 febbraio.
La prima cosa che viene in mente è un sentimento di compassione per chi ha protestato. I siciliani sanno bene quanto sia pericoloso mutare le tradizioni. Possiamo provare a comprendere il dispiacere per non aver vissuto uno dei momenti più toccanti e suggestivi di tutta la festa (qualora – come sostengono alcuni – non vi siano altre ragioni, anche di natura economica). La tradizione ci rende sicuri e, forse, ci illude che tutto continui ad andare bene, nonostante tutto. Si sarebbe potuta fare a passo d’uomo la salita di Sangiuliano? Chi ha deciso? Dov’era chi doveva assumersi la responsabilità di questa scelta? Il “Mastro di vara” è stato lasciato solo in questa decisione? Probabilmente, ma non è questo che conta adesso. Nessuna considerazione, infatti, può giustficare lo spettacolo che è stato offerto al mondo intero. Ci offende come siciliani, come devoti di sant’Agata e come cristiani.
Ci è parso di rivedere le antiche tesi di psicologi come Le Bon secondo cui la folla è lo spazio in cui l’emotività, l’irrazionalità e le passioni inconsce, solitamente tenute a freno dalla coscienza individuale, possono esplodere. In tale ambito l’individuo, liberato dai freni inibitori, fa emergere quanto di inaccettabile vi è in lui. Tuttavia ciò non rende giustizia del sentimento autenticamente religioso che, siamo certi, permea la coscienza della stragrande maggioranza dei devoti di sant’Agata.
Un insegnamento possiamo trarlo anche da questo evento: ci sono valori più grandi della tradizione e del folklore (e, se del caso, anche delle scommesse). Esiste il rispetto della vita umana, della sicurezza e dell’incolumità dei nostri fratelli. Lo stesso martirio di sant’Agata è proprio un esempio della volontà di non sacrificare i valori più alti in nome della convenienza o dell’opportunità. Abbiamo sacrificato la tradizione, ma sant’Agata resta nei nostri cuori. Possiamo fare la stessa cosa anche ad altri livelli, come catanesi, siciliani e meridionali. La protesta e la rabbia che si sono manifestate in questa occsione, potrebbero e dovrebbero essere opportunamente incanalate per estirpare ciò che veramente di sbagliato c’è nella nostra società meridionale, contro ciò che opprime e frena lo sviluppo del nostro territorio. Questo episodio potrebbe diventare metafora della voglia di non arrendersi, ma solo se teniamo presente un fine più grande: il bene di tutti. Perchè il benessere del singolo non può prescindere dal benessere degli altri. In questo sant’Agata continua ad educare il suo popolo con pazienza e benevolenza.
Ai media e agli osservatori internazionali vorremmo chiedere uno sguardo di benevolenza, per non voler liquidare la fede agatina come qualcosa che scatena sentimenti ancestrali e brutali, secondo le citate tesi, o come l’ennesima conferma di una scietà, quella meridionale, vittima di se stessa e della sua incapacità di sviluppo. Attenti alle generalizzazioni e alle condanne facili. La festa di sant’Agata è e resta un evento straordinario, unico, che manifesta la grande capacità del nostro popolo e dei nostri giovani di appassionarsi, di amare e di credere.
Ci piacerebbe sentire parole di esortazione e di speranza anche dai Pastori della nostra Chiesa. Perchè questi ragazzi, che protestano per la modifica del tragitto della processione di sant’Agata, hanno bisogno di parole e, ancor più, di esempi di speranza. Per poter essere più liberi dalle tradizioni e più forti nell’affrontare le nuove sfide. L’emergenza – ancora una volta – è quella educativa. Su tutta la vicenda pesa un’ombra: siamo sicuri che quel che è accaduto è solo colpa di alcuni ragazzi facinorosi?