Il pianto non prevalga sulla speranza della risurrezione, ricorda il Papa, invitando a vivere il profondo significato religioso dell’odierna commemorazione dei fedeli defunti che ci porta a guardare oltre la nostra dimensione terrena.
Redazione SME
Non c’è un modo specifico per diventare santi o uno stile di vita unico che porti alla santità. E tutti i cristiani sono chiamati alla santità. Lo ha ricordato il Papa, ieri, durante l’Angelus della festa di Ognissanti. «Oggi – ha spiegato Benedetto XVI alle migliaia di fedeli radunati in piazza San Pietro – veneriamo proprio questa innumerevole comunità di tutti i santi, i quali, attraverso i loro differenti percorsi di vita, ci indicano diverse strade di santità, accomunate da un unico denominatore: seguire Cristo e conformarsi a Lui, fine ultimo della nostra vicenda umana. Tutti gli stili di vita, infatti, – ha proseguito – possono diventare, con l’azione della grazia e con l’impegno e la perseveranza di ciascuno, vie di santificazione». «La solennità di tutti i santi – ha poi spiegato Benedetto XVI – è occasione propizia per elevare lo sguardo dalle realtà terrene, scandite dal tempo, alla dimensione di Dio, la dimensione dell’eternità e della santità». La santità, ha ribadito il Papa, è «vocazione di ogni battezzato» e «tutti i membri del popolo di Dio sono chiamati a diventare santi». Per questo della Chiesa occorre guardare non la dimensione terrena di fragilità, ma quella splendida realtà che è la “Comunione dei santi”.
La preghiera per i morti, ha ricordato ancora il Papa riferendosi all’odierna commemorazione dei fedeli defunti «è non solo utile, ma necessaria, in quanto essa non solo li può aiutare, ma rende al contempo efficace la loro intercessione in nostro favore». Benedetto XVI ha quindi aggiunto: «Anche la visita ai cimiteri, mentre custodisce i legami di affetto con chi ci ha amato in questa vita, ci ricorda che tutti tendiamo verso un’altra vita, al di là della morte. Il pianto, dovuto al distacco terreno, – ha concluso – non prevalga perciò sulla certezza della risurrezione, sulla speranza di giungere alla beatitudine dell’eternità, momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità».
Ecco l’omelia pronunciata oggi, mercoledì 2 novembre, dal cardinale arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra, durante la messa in suffragio di tutti i defunti.
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Cari fratelli e sorelle, quando in questi giorni veniamo presso la tomba dei nostri cari, ci troviamo di fronte all’enigma più indecifrabile: la morte delle persone amate. Ed è inevitabile che ci interroghiamo sulla loro condizione attuale: che ne è di loro? Sono definitivamente scomparsi nel nulla? Oppure vivono ancora sia pure con una modalità diversa dalla nostra?
Dio è venuto in aiuto alla nostra incapacità di rispondere a queste domande; ci ha dato la risposta nella sua parola. Quale? Iniziamo la nostra riflessione dalla prima lettura, quella del profeta.
1. «Eliminerà la morte per sempre; il Signore asciugherà le lacrime su ogni volto». Questa è la promessa più grande che Dio ha fatto all’uomo, quella di eliminare la morte per sempre.
La realtà, tuttavia, questo luogo in particolare sembra smentire la promessa che il Signore ci ha fatto mediante il profeta: il luogo in cui ci troviamo dice che la morte non è eliminata; che non sono state asciugate le lacrime su ogni volto.
Cari fratelli e sorelle, è accaduto tuttavia un fatto nel quale la morte è stata eliminata, un sepolcro non ha conosciuto la corruzione di chi vi era stato deposto. E il fatto è la risurrezione di Gesù nel suo vero corpo. È l’unico caso in cui la morte non ha celebrato le sue vittorie. Dio, il Dio della vita, ha investito e come penetrato il corpo esanime di Gesù. E lo ha fatto rivivere di una vita immortale.
Riascoltiamo ora l’apostolo Paolo. «Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo». Sia pure brevemente fermiamoci su queste parole:
Ci è stato donato lo Spirito, cioè la fonte stessa della vita eterna [nel Credo non diciamo forse: credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita?]. O meglio: mediante lo Spirito, colui che crede e riceve i santi Sacramenti, viene vivificato dalla vita stessa del Signore risorto. Entriamo in Cristo e quindi con Lui, nello spazio della vita definitiva. Il nostro cibo, l’Eucarestia, è la medicina della immortalità, è il pane della vita eterna.
Ma l’Apostolo dice qualcosa che ci illumina ancora più profondamente di fronte al mistero della morte. Dice che siamo diventati «eredi di Dio» in quanto siamo «coeredi di Cristo». Scrivendo al suo discepolo Tito, l’Apostolo è ancora più esplicito e dice che siamo «eredi della vita eterna» [Tit 3. 7]. E l’apostolo Pietro scrivendo ai suoi fedeli, dice che proprio mediante la risurrezione di Gesù il Padre-Dio ci ha rigenerato «per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce»[1Pt 1, 3-4].
Ecco, fratelli e sorelle, come la promessa fatta dal profeta si è compiuta. Dio ha risuscitato Gesù ed ha impedito che conoscesse la corruzione del sepolcro. Chi crede in Lui e riceve i sacramenti della fede, diventa partecipe della stessa vita immortale del Signore risorto.
2. Ma voi, soprattutto in questi giorni, vi fermerete davanti al sepolcro dei vostri cari e vi chiederete: che ne è di loro? Quale la loro condizione? Se teniamo presente quanto detto finora, il morire significa «essere con Cristo». I nostri cari sono con Cristo. Lui è la vita, e niente e nessuno potrà separarci da Lui. La morte è l’ingresso in una condizione di vita che consiste nel «vivere con Cristo». «Saremo sempre col Signore», dice l’Apostolo [1Tess 4, 17]. Questa è la condizione dei nostri morti.
Certamente il corpo dei nostri cari resta nel sepolcro. Questo ci aiuta a capire una verità assai importante che ci riguarda. La nostra persona non è riducibile al suo corpo. Essa è una realtà spirituale, per sua natura immortale. Noi chiamiamo questa dimensione spirituale della nostra persona “anima”. L’anima è ciò che fa di ciascuno di noi una persona immortale, anche quando il nostro corpo si dissolve.
Ecco, fratelli e sorelle: Dio ha risposto alle nostre domande sulla morte e sulla sorte dei nostri cari, perché “non continuiamo ad affliggerci come gli altri che non hanno speranza” [cfr. 1Tess 4, 13].
«Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi ed irremovibili» nella fede in Gesù risorto, «prodigandovi sempre nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore» [1 Cor 15, 58].
Catechesi del Santo Padre, Benedetto XVI, in occasione dell’Udienza Generale, tenutasi il 2 novembre 2011 nell’Aula Paolo VI.
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Cari fratelli e sorelle!
Dopo avere celebrato la Solennità di Tutti i Santi, la Chiesa ci invita oggi a commemorare tutti i fedeli defunti, a volgere il nostro sguardo a tanti volti che ci hanno preceduto e che hanno concluso il cammino terreno. Nell’Udienza di questo giorno, allora, vorrei proporvi alcuni semplici pensieri sulla realtà della morte, che per noi cristiani è illuminata dalla Risurrezione di Cristo, e per rinnovare la nostra fede nella vita eterna.
Come già dicevo ieri all’Angelus, in questi giorni ci si reca al cimitero per pregare per le persone care che ci hanno lasciato, quasi un andare a visitarle per esprimere loro, ancora una volta, il nostro affetto, per sentirle ancora vicine, ricordando anche, in questo modo, un articolo del Credo: nella comunione dei santi c’è uno stretto legame tra noi che camminiamo ancora su questa terra e tanti fratelli e sorelle che hanno già raggiunto l’eternità.
Da sempre l’uomo si è preoccupato dei suoi morti e ha cercato di dare loro una sorta di seconda vita attraverso l’attenzione, la cura, l’affetto. In un certo modo si vuole conservare la loro esperienza di vita; e, paradossalmente, come essi hanno vissuto, che cosa hanno amato, che cosa hanno temuto, che cosa hanno sperato e che cosa hanno detestato, noi lo scopriamo proprio dalle tombe, davanti alle quali si affollano ricordi. Esse sono quasi uno specchio del loro mondo.
Perché è così? Perché, nonostante la morte sia spesso un tema quasi proibito nella nostra società, e vi sia il tentativo continuo di levare dalla nostra mente il solo pensiero della morte, essa riguarda ciascuno di noi, riguarda l’uomo di ogni tempo e di ogni spazio. E davanti a questo mistero tutti, anche inconsciamente, cerchiamo qualcosa che ci inviti a sperare, un segnale che ci dia consolazione, che si apra qualche orizzonte, che offra ancora un futuro. La strada della morte, in realtà, è una via della speranza e percorrere i nostri cimiteri, come pure leggere le scritte sulle tombe è compiere un cammino segnato dalla speranza di eternità.
Ma ci chiediamo: perché proviamo timore davanti alla morte? Perché l’umanità, in una sua larga parte, mai si è rassegnata a credere che al di là di essa non vi sia semplicemente il nulla? Direi che le risposte sono molteplici: abbiamo timore davanti alla morte perché abbiamo paura del nulla, di questo partire verso qualcosa che non conosciamo, che ci è ignoto. E allora c’è in noi un senso di rifiuto perché non possiamo accettare che tutto ciò che di bello e di grande è stato realizzato durante un’intera esistenza, venga improvvisamente cancellato, cada nell’abisso del nulla. Soprattutto noi sentiamo che l’amore richiama e chiede eternità e non è possibile accettare che esso venga distrutto dalla morte in un solo momento.
Ancora, abbiamo timore davanti alla morte perché, quando ci troviamo verso la fine dell’esistenza, c’è la percezione che vi sia un giudizio sulle nostre azioni, su come abbiamo condotto la nostra vita, soprattutto su quei punti d’ombra che, con abilità, sappiamo spesso rimuovere o tentiamo di rimuovere dalla nostra coscienza. Direi che proprio la questione del giudizio è spesso sottesa alla cura dell’uomo di tutti i tempi per i defunti, all’attenzione verso le persone che sono state significative per lui e che non gli sono più accanto nel cammino della vita terrena. In un certo senso i gesti di affetto, di amore che circondano il defunto, sono un modo per proteggerlo nella convinzione che essi non rimangano senza effetto sul giudizio. Questo lo possiamo cogliere nella maggior parte delle culture che caratterizzano la storia dell’uomo.
Oggi il mondo è diventato, almeno apparentemente, molto più razionale, o meglio, si è diffusa la tendenza a pensare che ogni realtà debba essere affrontata con i criteri della scienza sperimentale, e che anche alla grande questione della morte si debba rispondere non tanto con la fede, ma partendo da conoscenze sperimentabili, empiriche. Non ci si rende sufficientemente conto, però, che proprio in questo modo si è finiti per cadere in forme di spiritismo, nel tentativo di avere un qualche contatto con il mondo al di là della morte, quasi immaginando che vi sia una realtà che, alla fine, sarebbe una copia di quella presente.
Cari amici, la solennità di tutti i Santi e la Commemorazione di tutti i fedeli defunti ci dicono che solamente chi può riconoscere una grande speranza nella morte, può anche vivere una vita a partire dalla speranza. Se noi riduciamo l’uomo esclusivamente alla sua dimensione orizzontale, a ciò che si può percepire empiricamente, la stessa vita perde il suo senso profondo. L’uomo ha bisogno di eternità ed ogni altra speranza per lui è troppo breve, è troppo limitata. L’uomo è spiegabile solamente se c’è un Amore che superi ogni isolamento, anche quello della morte, in una totalità che trascenda anche lo spazio e il tempo. L’uomo è spiegabile, trova il suo senso più profondo, solamente se c’è Dio. E noi sappiamo che Dio è uscito dalla sua lontananza e si è fatto vicino, è entrato nella nostra vita e ci dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,25-26).
Pensiamo un momento alla scena del Calvario e riascoltiamo le parole che Gesù, dall’alto della Croce, rivolge al malfattore crocifisso alla sua destra: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Pensiamo ai due discepoli sulla strada di Emmaus, quando, dopo aver percorso un tratto di strada con Gesù Risorto, lo riconoscono e partono senza indugio verso Gerusalemme per annunciare la Risurrezione del Signore (cfr Lc 24,13-35). Alla mente ritornano con rinnovata chiarezza le parole del Maestro: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no non vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”?» (Gv 14,1-2). Dio si è veramente mostrato, è diventato accessibile, ha tanto amato il mondo «da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16), e nel supremo atto di amore della Croce, immergendosi nell’abisso della morte, l’ha vinta, è risorto ed ha aperto anche a noi le porte dell’eternità. Cristo ci sostiene attraverso la notte della morte che Egli stesso ha attraversato; è il Buon Pastore, alla cui guida ci si può affidare senza alcuna paura, poiché Egli conosce bene la strada, anche attraverso l’oscurità.
Ogni domenica, recitando il Credo, noi riaffermiamo questa verità. E nel recarci ai cimiteri a pregare con affetto e con amore per i nostri defunti, siamo invitati, ancora una volta, a rinnovare con coraggio e con forza la nostra fede nella vita eterna, anzi a vivere con questa grande speranza e testimoniarla al mondo: dietro il presente non c’è il nulla. E proprio la fede nella vita eterna dà al cristiano il coraggio di amare ancora più intensamente questa nostra terra e di lavorare per costruirle un futuro, per darle una vera e sicura speranza. Grazie.